Quando nel 2020 è uscito il nuovo adattamento Disney+ di Black Beauty, molti spettatori hanno scoperto – o, speriamo, riscoperto – la potenza senza tempo del romanzo di Anna Sewell. Ma il film contemporaneo è ben lungi dal rappresentare la grandezza del libro da cui trae origine, essendo stato ridotto al racconto di un legame tra un cavallo e un’adolescente. Ma la grandezza di Black Beauty non sta in questo, anzi forse è proprio la bellezza di questo legame a rendere ancora più forte la denuncia di questo testo. Perché sì, Black Beauty è un testo di denuncia e non un semplice romanzo per bambini, è stato il primo romanzo di denuncia della situazione dei cavalli utilizzati come mero strumento di lavoro. Ovviamente, l’autrice ha giustamente scelto di iniziare la denuncia nel modo più forte che possa esistere: attraverso l’educazione dei bambini.
Black Beauty fu scritto nel 1877, in Inghilterra, e questo dovrebbe bastare per far comprendere lo scandalo che significò ma il pubblico, nello sconcerto, si trovò ad amarlo così tanto da farlo diventare un classico della letteratura inglese.
Il film del 1994 – in Italia uscito con il titolo Black Beauty, Autobiografia di un cavallo – si apre con la voce narrante del protagonista: “Il mio nome è Black Beauty. Non so se mi daranno un altro nome, ma questo è quello che mi diede mia madre, e a me piace”. Già dalle prime battute, possiamo capire che la storia sarà filtrata attraverso gli occhi e le emozioni di un cavallo, un approccio che trasforma ogni scena in un inno all’empatia e al rispetto verso gli animali. Ma, soprattutto, già dalle prime battute si comprende che la storia ci farà piangere. Perché questo deve fare Black Beauty. Non è possibile guardare questo film o leggere questo libro, anche dopo la milionesima volta, e non piangere.
Non possiamo che struggerci per la situazione di ingiustizia e maltrattamento che questi cavalli vivevano, e, ahimè alcuni vivono ancora, venendo comprati, usati fino allo sfinimento, rivenduti per essere nuovamente sfiancati, senza pietà, ed essere rivenduti in un ciclo al ribasso che ha fine solo con la morte.
La bontà e la crudeltà degli uomini si alternano in un vortice da cui è impossibile non essere travolti. Ci troviamo a condividere la sofferenza del tragico destino di Ginger, femmina saura, che viene portata via tra i nitriti di Black e che rivedremo solo da morta di fatica. Ma l’amore del vetturino e della sua famiglia che fanno le trecce con i nastri bianchi a un Black appena acquistato, coccolandolo, ci fa sentire tutto il calore della giustizia.
“Un cavallo non ha colpe, non conosce l’orgoglio o la malizia. È l’uomo che decide se dargli una vita di gentilezza o di dolore”.
E di fronte a tutto questo, non si può ridurre l’atto di coraggio della scrittrice Anna Sewell al rapporto tra un’adolescente e un cavallo. Non è giusto nei confronti di colei che per prima ha avuto il coraggio di portare avanti una denuncia sociale a favore dei cavalli attraverso un libro per bambini.
Per quanto la tendenza contemporanea sia da un lato la trasformazione della vita reale in favola e dall’altro la mitizzazione della violenza come forma di rispetto sociale, ci sono dei momenti in cui bisogna fermarsi e tornare alle fonti. Black Beauty è una denuncia sociale importante che per la prima volta ha urlato al mondo che i cavalli erano tra gli animali più maltrattati dall’uomo. Per la prima volta è stato detto che la violenza verso un cavallo crea sofferenza in quanto è un essere vivente come noi: non è un caso che la narrazione avvenga mediante la tecnica narrativa dello “straniamento”: ossia che il punto di vista del narratore corrisponde con quello del cavallo. Dopotutto anche Lev Tolstoj utilizzò nel il testo “Cholstomér” la stessa tecnica per raccontare la crudeltà dell’uomo nel trattare i cavalli come oggetti.
E così, non possiamo che suggerire a tutti di vedere, e rivedere, il film Black Beauty del 1994, che potete trovare su Amazon Prime, e poi, ma senza pensare che ci sia un vero collegamento, il film del 2020.
“La vita non è stata sempre gentile con me, ma ho conosciuto anche mani buone e cuori fedeli. E questo mi basta”. E’ così che si conclude Black Beauty, probabilmente non esiste un altro modo di farci sentire più umani e, speriamo di no, anche più colpevoli.
